Il successo di Charles Leclerc del 2019 al GP Monza ha segnato un punto di non ritorno nella storia moderna della Ferrari con effetti ancora visibili
Monza ha un legame unico, profondo, con la velocità e con la passione. I tifosi sognano guardando i bolidi dagli inizi del Novecento. L’entusiasmo è diventato storia nel 1951 quando per la prima volta un pilota completò un giro al volante di una Formula 1 a più di 200 km/h di media. Era Juan Manuel Fangio sull’Alfa Romeo, protagonista quell’anno di un duello umano e tecnico con il ferrarista Alberto Ascari.
Nelle immagini che i tifosi Ferrari portano nel cuore a Monza non ci sono tanti fotogrammi di Michael Schumacher, che pure qui vanta il record di vittorie condiviso con Lewis Hamilton. Resta più la doppietta Berger-Alboreto del 1988, il trionfo di Fernando Alonso del 2010 o l’annuncio di Charles Leclerc del 2019. Già Leclerc. Quella vittoria, la prima per un ferrarista dopo il successo dell’asturiano, fu come un’adozione da parte del popolo del Cavallino, un trionfo con dentro una maledizione.
Leclerc ha tutto per alimentare la passione, sentimento plurimo come nessun altro, che già nella parola stessa tiene insieme l’aspirazione alla felicità e le radici della sofferenza.
Il monegasco che studia da campione, costretto da giovane a fare i conti con il dolore per cui non esiste cura dopo la morte del padre e del migliore amico Jules Bianchi, le contiene entrambe. E le mostra senza nasconderne gli effetti. In pista è a volte fin troppo irruento, feroce, deciso. Sa essere tagliente, e può diventare una lama di luce nel cuore del popolo della Rossa che da troppi anni vede gli altri festeggiare sul podio più iconico del Mondiale.
In quel 2019, Leclerc ha accarezzato a lungo la prima vittoria in Ferrari e in Formula 1. Se l’è vista sfuggire, come capita troppo spesso a chi desidera qualcosa con troppa intensità fino a farsi distruggere dalla sua stessa passione. L’ha finalmente centrata a Spa, ma è una vittoria senza gioia e senza festa, un successo che si affianca alla tristezza per un altro amico scomparso, Anthoine Hubert, morto il giorno prima in un incidente in Formula 2. A Monza, per lui e per la Ferrari, sarebbe cambiato tutto.
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L’immagine del weekend perfetto di Monza la offre Jean Alesi. Tante volte ha affrontato la Roggia o la Parabolica con la Ferrari numero 27, sognando di potersi prendere l’abbraccio dei tifosi. Avrebbe dato tutto, pagato qualsiasi prezzo, per provare almeno una volta una gioia simile. Non gli è mai riuscito.
Quel giorno è uno spettatore privilegiato, è lui che sventola la bandiera a scacchi davanti al casco di Leclerc. L’impeto gioioso è tale che si sporge con tutto il busto fuori dal gabbiotto. I commissari lo reggono da dietro, altrimenti rischierebbe di cadere di sotto.
Quella vittoria la sente un po’ anche sua, come di tutti gli uomini legati alla Ferrari, come la marea rossa che sulle tribune non si contiene e tracima. Chi c’era, magari ripensa a Schumacher, capace nel 1996 di vincere a Spa e a Monza di fila. Chi l’ha visto e chi non c’era capisce che Leclerc ha afferrato la sua chimera. Capisce che quel giorno, il monegasco si è preso il futuro della Ferrari.
Ha iniziato in qualifica a scavare un solco nelle gerarchie interne con Sebastian Vettel, a cui deliberatamente non fornisce la scia nell’ultimo tentativo in Q3. Resiste alle polemiche del sabato come farà in gara agli attacchi di Hamilton e Bottas: due contro uno, perché un testacoda allontana Vettel dalla lotta per il podio.
Al giro 23, il britannico prova ad attaccarlo alla Variante della Roggia. Leclerc, con una manovra al limite lo spinge sull’erba; il britannico, senza più spazio, deve tagliare la chicane successiva. Il pubblico è in delirio. E lo sarà ancora di più nei giri finali quando tiene dietro Hamilton, che spinge con l’orgoglio del campione ferito, nonostante abbia scelto le gomme dure teoricamente meno performanti.
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“Ti perdoniamo”, gli dicono via radio, con la leggerezza scherzosa che permette di esprimere le grandi verità. Perché gli equilibri interni, almeno pubblicamente, vanno difesi (e i team radio vengono diffusi, anche se non tutti, in tv). E il suo gesto di egoismo non è passato inosservato.
I rivali, però, sono molto meno disposti al perdono. Quella sua difesa con le hard, il suo spunto in rettilineo anche con il DRS chiuso, l’incremento di velocità tra la Parabolica e la speed trap al traguardo hanno insospettito i rivali. La successiva inchiesta della Fia sulla presunta irregolarità delle power unit di Maranello si è chiusa con un patteggiamento. Ha lasciato domande che restano senza risposta, e innescato conseguenze concrete ancora evidentissime a due anni distanza.
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