MotoGP, cos’è la sindrome compartimentale e perché colpisce i piloti

La sindrome compartimentale: cos’è, in quali forme si manifesta, perché colpisce sempre più i piloti di MotoGP

MotoGP Jerez
MotoGP (Getty Images)

La sindrome compartimentale è una patologia molto diffusa tra i motociclisti. Se ne è parlato nuovamente domenica scorsa al termine del GP di Jerez con Fabio Quartararo sofferente ai box con il braccio contratto. Esami successivi hanno escluso la sindrome compartimentale per il pilota della Yamaha, malanno con cui hanno dovuto convivere, invece, vari piloti di MotoGP. Ne sono stati colpiti infatti Iker Lecuona, Jack Miller che ha vinto il GP Spagna, Daniel Pedrosa, Cal Crutchlow.

Per capire cos’è la sindrome compartimentale, bisogna partire dalle definizioni. Si chiama così perché ha a che fare con i compartimenti muscolari, che si trovano prevalentemente negli arti inferiori e superiori. Ovvero aree anatomiche chiuse che contengono muscoli e nervi dentro una fascia fibrosa. Questa fascia non è particolarmente elastica, ed è questo che porta alla manifestazione di questa condizione patologica se aumenta la pressione all’interno del compartimento.

Esistono due tipi di sindrome compartimentale. La prima, definita acuta, è spesso conseguenza di fratture, edemi, emorragie che aumentano la pressione interna. Dato che la fascia non può espandersi, questi eventi impediscono un corretto afflusso di sangue nel compartimento.

I piloti di motociclismo sono tra gli sportivi più colpiti dalla seconda tipologia, la sindrome compartimentale cronica. Uno dei compartimenti più sollecitati è localizzato negli avambracci. In questo caso, la manifestazione dei sintomi non è determinata da un trauma, ma dall’aumento della massa muscolare. Il muscolo sotto sforzo aumenta di volume, preme sulla fascia che però non è elastica, e il flusso di sangue ne risente.

Non essendo conseguenza di un trauma, è meno grave. Gli atleti avvertono formicolio, perdita di forza, pesantezza. Se colpisce durante la gara, evidentemente limita di molto la prestazione. Ma dopo la gara, quando il muscolo si rilassa, i sintomi dopo un po’ di tempo vanno via.

La sindrome compartimentale cronica, che può colpire anche i bodybuilder, i canoisti o i tennisti visto lo sforzo richiesto agli avambracci, non si può in sostanza prevenire. Ma si può curare.

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Come si cura la sindrome compartimentale

Se non basta il ricorso alla fisioterapia o se l’atleta non può prendersi un periodo di riposo, come nel caso dei piloti di MotoGP a stagione in corso, l’unica strada percorribile è l’intervento chirurgico. Si tratta di un’operazione di fasciotomia, piuttosto invasiva e con tempi di recupero che vanno dalle due alle sei settimane. Consiste nell’incisione, con bisturi o laser, della membrana che avvolge il muscolo, la fascia appunto, per diminuire la pressione.

Jack Miller
Jack Miller (Getty Images)

La sindrome compartimentale ha iniziato a colpire di più i piloti negli ultimi dieci o vent’anni. Al di là delle predisposizioni anatomiche, possono esistere anche dei fattori tecnici. Le moto sono diventate più potenti e più pesanti, con il passaggio dalla 500 alla MotoGP con i motori a quattro tempi. Il pilota è sempre più un atleta, chiamato a un allenamento fisico molto più intenso.

La guida più energica che si richiede, il modo di stare in sella, di frenare e di impostare le curve sono tutti fattori che vanno a sollecitare gli avambracci. Anche il layout dei circuiti di nuova generazione, con una successione di frenate brusche e imponenti accelerazioni, può comportare l’aumento della pressione nella zona dell’avambraccio che rappresenta il primo stadio della sindrome compartimentale.

Per questo, diventa centrale la ricerca sul design sempre più ergonomico della sella o del cupolino, per mettere il pilota in una posizione ideale e fare in modo che non stia “aggrappato alla moto”, in una posizione che aumenta in modo innaturale lo sforzo. Ovviamente, senza sacrificare la ricerca della massima prestazione in pista.

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