Il 2 giugno Bruce McLaren rimaneva tragicamente ucciso in uno schianto con una delle sue vetture. Ma la sua eredità ancora oggi è estremamente forte e presente.
Il marchio McLaren è uno dei più affermati a livello mondiale quando si parla di auto sportive e di Formula 1 ma pochi tra gli appassionati delle nuove generazioni sanno chi era Bruce McLaren. L’uomo che ha creato dal nulla un brand di enorme successo.
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Proprio in questi giorni ricorrono i cinquant’anni della scomparsa di Bruce McLaren, morto a soli 32 anni. Ucciso dal suo zelo, dal perfezionismo e dalla sua dannata passione per la velocità e le auto. Era il 2 giugno del 1970 e il pilota stava provando la sua Can-Am M8D con cui avrebbe partecipato alle prove endurance che la sua scuderia stava dominando da anni. Le Mans, Sebring… McLaren aveva vinto tutto. Il test si stava svolgendo sul circuito inglese di Goodwood, nel Surrey. La macchina andava molto forte e i meccanici gli avevano detto di fermarsi per il pranzo… “Faccio ancora qualche giro, secondo me possiamo fare ancora meglio”.
Lanciato a 290 all’ora sul rettilineo della Lavant, proprio immediatamente prima del curvone Woodcote, la sua Can-Am perde aderenza e finisce fuori strada. Ci sono pochi testimoni di quello che è accaduto, nessun filmato. Le foto testimoniano un disperato tentativo di frenata prima dello schianto nel quale la vettura si capovolge più volte schiantandosi contro un blocco di cemento. Per McLaren non c’è nulla da fare. Muore sul colpo.
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L’eredità di Bruce McLaren è rimasta dopo i suoi successi e la sua tragica morte. La scuderia che porta il suo nome ha conquistato otto mondiali costruttori e dodici mondiali piloti molti anni dopo la sua scomparsa. L’unico pilota che ha vinto tutto guidando le auto di altri (soprattutto con la Ford GT40) e che a soli 32 anni era riuscito a costruire un’auto che portasse il suo nome e incarnasse il suo spirito e la sua dedizione per la velocità. Un pilota che sapeva tirare fuori cavalli dalle sue auto come nessun altro, un ingegnere con un raffinatissimo gusto estetico e la capacità non comune di rendere un’auto apparentemente ‘normale’ un bolide.
McLaren è stato uno dei primi a rivoluzionare il design delle auto interpretando per primo le leggi dell’aerodinamica, abbassando il telaio, mettendo il pilota al centro di un meccanismo perfetto di tecnologia e meccanica in un’epoca in cui l’elettronica non esisteva. Chissà che cosa avrebbe combinato oggi, magari alla guida della sua stessa scuderia, un genio di questa portata.
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Eppure, era arrivato alle corse quasi per sbaglio, grazie a una borsa di studio. E non si può certo dire che la sua infanzia fosse stata fortunata. A soli nove anni gli venne diagnosticata la sindrome di Legg-Perthes, una malformazione congenita di bacino e femore. La sua gamba sinistra era più corta di quasi quattro centimetri di quella destra. Bruce trascorre tre anni nel letto di un ospedale per l’infanzia. Il padre era un meccanico con la passione delle auto sportive. Ed è proprio nel suo garage di Remuera, alle porte di Auckland, in Nuova Zelanda, che le sue prime creazioni prendono forma.
Il suo esordio in pista a soli 14 anni. La sua prima auto, una Austin 7 del 1929 elaborata per la pista, è oggi al centro di una serie di celebrazioni che idealmente uniscono la Nuova Zelanda e l’Inghilterra. Qui, nella sua patria adottiva, nonostante la pandemia, sono tante le manifestazioni per ricordare questa figura davvero straordinaria. Il suo unico torto fu quello di scomparire troppo presto, prima della televisione di massa e di Internet, prima che i grandi fan della Formula 1 conoscessero la sua leggenda e la sua eredità.
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Il circuito di Goodwood, in Inghilterra, era il suo mondo di fiaba. Il luogo dove il mito di McLaren è nato ed è diventato di portata mondiale. Quello dove ogni anno i dipendenti della sua scuderia portano un mazzo di fiori e una corona di alloro come quella che veniva messa al collo di chi vinceva Le Mans. Un mito che rivive nelle sue auto di oggi, così diverse da quelle che aveva progettato lui e che forse lo farebbero storcere il naso, per lui, maniaco del controllo e teorico della superiorità dell’uomo persino sulla meccanica. Chissà che rapporto avrebbe avuto con l’elettronica.
Sua figlia Amanda, 55 anni, parla di quel padre che praticamente non ha mai conosciuto e di cui tutti le parlano: “Mi sarebbe piaciuta un’infanzia con lui, mi sarebbe piaciuto prendere lezioni di guida con una delle sue vecchie auto che ancora conserviamo e visitare la Nuova Zelanda cui era profondamente legato. Avevo solo cinque anni quando mio padre morì, di lui ricordo pochissimo e so solo quello che mi hanno raccontato ma è comunque molto per essere profondamente orgogliosa di lui. Sono già passati cinquant’anni da quel momento ma evidentemente era destino che la sua capacità fosse quella di essere ricordato per ciò che vedeva prima degli altri, indipendentemente dal fatto di non esserci più”.
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