Meritava certamente una sorte migliore lo splendido yacht dal quale Guglielmo Marconi condusse uno degli esperimenti più innovativi nella storia della radiocomunicazione. Dopo anni di disarmo è stato distrutto, dimenticato, fatto a pezzi e non è mai diventato un museo.
Ci sono mezzi che fanno parte della storia dell’uomo e che nel bene e nel male ne segnano i progressi e la grandezza. Se l’Enola Gay, il bombardiere B209 che sganciò la bomba su Hiroshima ancora oggi è considerato un ricordo pesante per la cultura americana, l’Italia non è riuscito a preservare l’Elettra, lo yacht che il premio Nobel Guglielmo Marconi trasformò in laboratorio di idee e progetti.
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L’Elettra ha una storia davvero straordinaria e non solo perché fu la nave di Marconi: varata in Scozia dai cantieri Ramage & Ferguson Ltd., originariamente si chiamava Rovenska. Era stata commissionata come imbarcazione di lusso dall’arciduca Carlo Stefano d’Austria che spesso andava proprio a Rovenska, sull’isola di Lussino con la sua famiglia. Lo yacht, 63 metri di lunghezza con un motore a vapore da oltre mille cavalli, all’epoca era una vera favola. Bellissimo, lussuoso, tagliato in legno pregiato ma soprattutto velocissimo. Il panfilo raggiungeva senza difficoltà i dodici nodi che per l’epoca erano la velocità di un incrociatore leggero con ben altri propulsori.
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Lo yacht, o meglio i suoi proprietari, non ebbero molta fortuna. L’arciduca cadde in disgrazia e lasciò la barca a a un imprenditore inglese, Maxim Waechter, che dopo tre anni la vendette in pessime condizioni all’industriale dell’acciaio Gustav Pratt. Uno yacht del genere era eccezionale: tant’è che quando scoppiò la prima guerra mondiale la Royal Navy lo requisì per farlo diventare un’unità di sorveglianza e pattugliamento in servizio sulla Manica.
Nonostante qualche proiettile e parecchi danni Guglielmo Marconi, che all’epoca era famoso e ricchissimo, se ne innamorò. La comprò per 21mila sterline, un quinto di quanto era costata per il suo allestimento. L’inventore la fece portare prima a Napoli e a La Spezia dove restò in cantiere per oltre un anno. L’idea di Marconi era quella di renderla il suo laboratorio: e decise di chiamarla Elettra, lo stesso nome che diede alla bimba che ebbe qualche anno dopo dalla nobildonna Maria Cristina Bezzi-Scali che sposò in seconde nozze.
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Il mito dell’Elettra diventò internazionale quando Marconi era all’apice della sua fama. L’inventore aveva depositato non meno di una trentina di brevetti che lo avevano reso miliardario e lo yacht era il suo biglietto da visita. A bordo sperimentava nuove creazioni, lavorava sulle radiofrequenze e si divertiva a ospitare le classi degli studenti liguri perché l’Elettra, quando non girava il mondo, era sempre attraccata a Sestri Levante dove Marconi amava moltissimo passeggiare e nuotare.
Quando Marconi morì, nel 1937, gli appelli per salvaguardare la nave come patrimonio storico nazionale sembrarono andare a buon fine. Il ministero delle comunicazioni rilevò il panfilo per poco più di 800mila lire, una cifra ridicola rispetto al suo valore storico. Ma l’Elettra rimase di fatto in disarmo fino a quando per la seconda volta nella sua storia non fu requisita.
Stavolta fu la marina tedesca a prenderla e farne un incrociatore. La bellissima linea del panfilo venne deturpata con due torrette armate da cannoncini e mitragliette. Arrivata intatta per miracolo quasi alla fine della guerra l’Elettra, che venne ribattezzata prima G-107 e poi NA-6. Persi tutti i laboratori di bordo, sciaguratamente smantellati. Così come i i pregiatissimi fregi che Marconi aveva fatto recuperare: la nave, colpita da alcuni cacciabombardieri nelle acque di Zara, si arenò semiaffondata.
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Arenata e incapace di riprendere il mare, l’Elettra passò alla Jugoslavia e dietro le insistenti pressioni della figlia di Marconi che aveva trovato una sponda in Antonio Segni che sarebbe diventato di lì a poco presidente della Repubblica, la nave fu restituita all’Italia nel 1962. Il panfilo rimase in malora ad arrugginire nei cantieri di Muggia per oltre quindici anni. Nessuno che si decidesse a farne quel museo che avrebbe dovuto essere già alla morte di Marconi.
Nonostante l’intervento del Lloyd Triestino, all’epoca in cui il nostro paese vantava ancora una delle flotte tra le più grandi e importanti del mondo, l’Elettra rimase in malora. Eppure la compagnia di navigazione era pronta a investire quasi tre miliardi di lire per riportare l’Elettra alla sua grandezza originale. Un intervento dell’allora presidente del consiglio Giulio Andreotti sembrò salvarla in extremis ma anche quel disperato tentativo di recupero fallì. Nel 1977 – sarebbe bello sapere anche per ordine di chi – la barca entrò in bacino per essere smantellata. Del vecchio Elettra restava solo una carcassa in putrefazione e arrugginita…
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La prua della nave è stata posizionata all’AREA Science Park di Padriciano, vicino a Trieste, dove sono stati piantati anche i due alberi della nave, una vera opera di chi l’aveva costruita e che non erano mai stati intaccati. A Trieste presso il Museo Postale e Telegrafico della Mitteleuropa e presso il Museo civico del Mare è conservato l’impianto con cui dall’Elettra, attraccata a Genova, Marconi accese le luci del municipio di Syndey in uno dei suoi esperimenti più riusciti.
Alcune apparecchiature sono a Milano, al Museo nazionale della Scienza e della Tecnica, mentre a Muggia nella sede dell’associazione “Fameia Muiesana” è conservato il tornio di bordo. A La Spezia è rimasta una sezione della carena che è esposta al Museo Tecnico Navale mentre il taglio di poppa della nave con elica e timone è stata donata nel 1978 dal Ministero delle Poste e Telecomunicazioni a Telespazio ed è conservata e visibile presso il Centro spaziale del Fucino, ad Ortucchio in provincia dell’Aquila.
Un’altra sezione dello scafo è nella sede della Fondazione Marconi, mentre all’EUR ha trovato posto la cabina in cui lo scienziato effettuava i suoi esperimenti. In tutto ci sono trentasette parti dell’Elettra sparse per il mondo, tra l’Italia e l’Australia. Ma di quella meravigliosa opera d’arte che Marconi rese mito restano solo le foto d’epoca.
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